Paura di volare?

Il titolo accompagnato dal punto interrogativo ha un doppio significato. Da un lato le riflessioni che seguiranno sono rivolte a tutti coloro che ritengono di soffrire di questo problema,sperando di stimolare la loro curiosità rispetto a possibili soluzioni o quantomeno riletture dello stesso.

Dall’altro si riferisce al tema centrale. Cioè: siete proprio sicuri che le vostre paure relative ad un viaggio aereo siano legate al volo vero e proprio?

Già nel 1973 Erika Jong aveva pubblicato un libro erotico intitolato appunto “Paura di volare”, dove in pratica tra le varie cose sottintendeva che la metafora del volo conteneva in realtà la paura della propria sessualità,la sudditanza alle proprie inibizioni,il timore della propria libertà e della perdita orgasmica di controllo.

Chiarisco subito che non è questo il tema di cui vorrei occuparmi. Semplicemente confortato dalla famosa affermazione di Freud “Se volete sapere la verità chiedetela ai poeti” , io più modestamente prendo spunto da una scrittrice ,comunque dotata di sicura creatività,verosimilmente non solo letteraria, per occuparmi di una questione molto seria e in fondo poco dibattuta.

Nel corso degli anni ho avuto molte volte a che fare con questo sintomo,perchè di questo si tratta,un sintomo in realtà e non altro. Contrariamente a quanto viene fatto da colleghi che non seguono un approccio psicodinamico non mi sono mai concentrato sull’apparente problema,la paura di volare,appunto, ma sul suo significato per quella specifica persona,le sue conseguenze invalidanti e i limiti che veniva a comportare.

Poche volte ho seguito persone con necessità prevalentemente turistiche,che pure presentano una ragionevole importanza; il più delle volte si sono rivolti a me imprenditori o professionisti per cui il volare faceva parte di necessità lavorative continue e spesso fondamentali. Di conseguenza molto preoccupati di non poter più svolgere a pieno le loro attività. A volte il sintomo appariva all’improvviso dopo molti anni di viaggi senza alcun problema. Altre volte era presente da molto tempo,o da sempre ,ma era stato tenuto a bada da farmaci,alcool,o entrambe le cose. Poi,ad un certo punto queste pseudo soluzioni non erano più sufficienti.

Insieme a queste persone ho visto confermata la mia convinzione che nel 85% dei casi,ma vado per difetto,la paura di volare non c’entrava per nulla. Conseguentemente le reazioni fobiche,gli attacchi di panico o di ansia non erano causate dall’esperienza del volo in sé. Per tutti era possibile,un pò alla volta rendersi conto che le reazioni che avevano durante il volo,o anche solo in procinto,era causato da due aspetti della situazione,interconnessi ma distinti e variabili in proporzioni diverse a seconda delle persone

Per prima cosa sono rappresentate dal trovarsi imprigionati in una condizione di materiale perdita di movimento e autonomia. Quando saliamo a bordo di un aereo ci troviamo in una situazione chiusa,in cui siamo confinati per la maggior parte del tempo sul sedile,bloccati da cinture di sicurezza che limitano i movimenti,con persone gentili e professionali che di fatto ci dicono cosa possiamo o non possiamo fare, e quando. Ma soprattutto,anche se questo potrà far sorridere in un primo momento,non possiamo scendere quando vogliamo,non possiamo fermarci o stabilire direzioni e tempistiche.

Ovvio, si potrebbe dire,da un punto di vista razionale; il guaio è che ad una parte della nostra mente,di ciò che è razionale,in alcune situazioni non importa proprio nulla. Di fatto è una situazione fortemente regressivizzante che chi non vive in una specifica condizione psicologica od emotiva non comprende perchè non possa essere temporaneamente accettabile. Non lo è per coloro che al contrario soffrono dei vissuti reali o psicologici di imprigionamento o perdita di controllo nella propria vita,e questo spesso senza esserne del tutto consapevoli. O lo sono e credono di averlo accettato ma in realtà soggiaciono ad una condizione di acuto conflitto.

Per chiarire meglio aggiungo che una situazione molto simile si presenta a volte in persone che sviluppano la stessa sintomatologia quando si trovano in automobile in autostrada,talvolta anche solo in tangenziale ad alto o veloce scorrimento. Queste persone spiegano il loro malessere dicendo che il fatto di non poter uscire quando vogliono,ma ovviamente solo alle uscite previste,di non potersi fermare e scendere,anche qui,quando vogliono,scatena una reazione di ansia acutissima e talvolta paralizzante,fino al vero e proprio attacco di panico. Per qualcuno è sufficiente trovarsi bloccato in colonna nel traffico cittadino,per sviluppare reazioni emotive e somatiche acute.

Nella loro narrazione queste persone arrivano poco a poco ad individuare le condizioni reali che stanno vivendo e che vengono “trasferite”simbolicamente in modo inconscio su situazioni chiuse che le rappresentano. Queste possono essere di varia natura,affettiva,lavorativa,relazionale. Situazioni contingenti o vissute e subite per anni senza rendersi conto di quanta fatica ed energia psichica comporta il tenere a bada questi compromessi con sé stessi .

Non mi stancherò mai di ricordare che il sintomo,per quanto doloroso o scomodo è sempre una soluzione di compromesso,il compromesso migliore almeno fino a quando non si riesce a sciogliere il conflitto che lo genera. Nella nostra cultura invece siamo abituati a confondere i sintomi con le cause che li producono. Il sintomo,anche quello fisico,anche quello più fastidioso in realtà è il nostro sistema di allarme,è il nostro alleato. Quando compare ci avvisa che qualcosa non sta funzionando come dovrebbe nel nostro organismo,nella nostra mente o nella nostra vita. E’ un sistema di allarme che si attiva in caso di pericolo. Immaginiamo quello di una casa, messo a protezione delle nostre vite e di ciò che ci sta a cuore. Noi dormiamo tranquillamente,nel mezzo della notte arrivano i ladri,tentano di entrare,il sistema di allarme suona. Noi ci svegliamo,prendiamo la pistola dal cassetto del comodino (immaginiamo di vivere in Texas),ci alziamo e spariamo,non ai ladri ma al sistema di allarme così possiamo tornare a dormire. Detto così sembra ridicolo,ma è esattamente quello che facciamo.

Ovviamente le situazioni possono essere diverse e variamente complesse,ed in alcuni casi può essere più conveniente sparare al sintomo,quando le cause si estinguono spontaneamente ed in breve,per esempio. Tornando al punto,ciò che occorre fare quindi non è partire alla carica contro le nostre paure,quella di volare è una delle tante,qui al centro dell’attenzione,ma interrogarle ed interrogarsi per tentare di capire quali indicazioni,a volte preziose,ci stanno dando.

Quindi quando compare la paura di volare la domanda vera è : di che cosa in realtà ho paura? E facendo le domande giuste la risposta arriva sempre,mentre limitarsi a tamponare il problema,il più delle volte in modo parziale o temporaneo,lo porterà a ripresentarsi nella stessa o in altre forme.

Devo aggiungere che tutto ciò a volte non basta,perchè nel frattempo la nostra mente ha imparato ad avere paura,e non solo della causa scatenante,ma anche delle emozioni che ha sperimentato e rispetto a cui si è vissuta un’ulteriore perdita di controllo. La paura più profonda diventa quella di poter ancora provare sensazioni angoscianti che mai si sarebbe immaginato di conoscere. Quindi in un certo senso la paura di sé stessi,di non riuscire a governare le proprie emozioni con gli annessi sensi di colpa o di vergogna.

Quando accade questo,non spesso fortunatamente, ho trovato di grande efficacia insegnare delle tecniche di rilassamento profondo,molto profondo,quasi a livello di autoipnosi. Lo preciso perché molti utilizzano o pensano di utilizzare queste tecniche,la diffusione è stata enorme recentemente,ma in realtà sono spesso molto blande e superficiali,quindi non possono dare grandi risultati.

Utilizzando invece procedure adeguate la persona si rende progressivamente conto che può gestire le proprie risposte emotive e fisiologiche (dispnea,battito cardiaco,tensioni muscolari,spasmi intestinali ed esofagei,etc.) Tra l’altro ciò torna evidentemente utile in qualunque altra situazione possa presentarsi. Ciò che più conta è la percezione,reale ma anche simbolica,di tornare ad avere il controllo su di sé e sulla propria mente.

Mi rendo conto che il mio può sembrare un approccio un poco complesso,magari più lungo e impegnativo di altri che propongono “percorsi” di decondizionamento cognitivo,cioè affrontano il problema da un punto di vista razionale e psicologicamente supportivo. Spiegare quanto gli aeromobili siano ormai sicuri,che gli incidenti automobilistici sono molto più frequenti e provocano più decessi,attivare un tutoraggio,prendere per mano le persone (alcuni lo fanno veramente,non in senso metaforico),ed accompagnarle a contatto con la situazione stressogena,sono tutte strategie note da molto tempo e care a quella branca della psicologia che deriva dalla scuole behaviouriste. Sono sicuramente più facili da applicare e inquietano meno,in quanto le persone non si trovano a doversi confrontare con pensieri ed emozioni che eviterebbero volentieri.

Non dico che non funzionano,talvolta,però ritengo che il quel caso il problema era abbastanza marginale e tutto sommato epidermico. Questa convinzione deriva dall’aver lavorato in più occasioni con persone che avevano già tentato questa via senza risultati apprezzabili,e quindi si rassegnavano ad approcci diversi. In fondo lo trovo ragionevole.

Il vero problema sorge quando, vedendo fallire i primi tentativi,le persone si convincono che non ci sia nulla da fare,se non evitare i voli,e rassegnarsi ad imbottirsi di farmaci o soffrire. il risultato sarà che le Compagnie aeree perderanno quote di mercato e le persone quote di vita.

Il trauma più attuale oggi: l’accoglienza velleitaria

Riprendo una questione a cui avevo soltanto accennato nello scritto precedente. Siamo abituati a considerare traumatico solo o soprattutto l’evento eclatante,quello che in un modo (personale o mediatico) violento colpisce la nostra percezione. Sicuramente occorre tenerne conto,e sarebbe dovere mettere a disposizione di coloro che ne sono colpiti tutti i mezzi efficaci a disposizione. Così non è.
Prendiamo per esempio il caso,tra i più evidenti in questo momento,più evidente se non altro per consistenza numerica:i rifugiati dei centri si accoglienza.
Persone profondamente traumatizzate sia dalla situazione da cui fuggono,sia dal percorso spesso drammatico e violento che affrontano per arrivare là,cioè qua in Italia il più delle volte,dove si aspettano di trovare tutto ciò che fino ad allora gli era stato negato. Non approfondisco la questione,tutte cose già dette e inutilmente ripetute troppe volte.
Tutto bene,credo per quello che riguarda l’accudimento fisico,cioè cibo,vestiti adeguati al clima,cure mediche di prima necessità e così via.
E dal punto di vista psicologico? Ambito di cui tutti ormai si riempiono la bocca addetti e non ogniqualvolta accade qualcosa ,appunto di traumatico,dal terremoto al naufragio,dalle violenze di gruppo al disastro aereo. Parte armi e bagagli l’èquipe di psicologi,messa a disposizione etc,etc.
E per fare cosa? Con quale preparazione? Quale progetto?
Credo abbiamo assistito tutti grazie ai vari telegiornali, alle riprese di questi esperti(?) che si aggirano tra le tende,quando ci sono,chiedendo -come va? come si sente oggi? ha avuto paura? è riuscito a dormire questa notte?. E il poveretto di turno,forse perché sa di essere ripreso in quel momento,forse perché chi è traumatizzato ha la tendenza a compiacere chiunque mostri interesse per la sua situazione,forse perché -meglio stare al gioco,non si sa mai-,dà risposte ovvie e scontate.
Punto primo : ma davvero servono degli Psicologi,cioè personale tecnico qualificato da anni e anni di studi e, si suppone, formazione specialistica, per dire delle banalità che saprebbe dire meglio il barista del bar sotto casa,quando c’era ancora il bar e la casa,ovviamente.
O forse che saprebbero dirsi sicuramente molto meglio tra di loro,se non altro per l’inevitabile empatia e solidarietà che sorge in chi vive drammi simili.
Quello che avviene è una patetica replica della funzione una volta esercitata dal parroco,che girava dopo una battaglia tra le vittime a tentare di trasmettere un minimo di conforto umano e forse spirituale.
La vuota e ottusa convinzione che basta far parlare qualcuno del proprio dramma è già di per sè terapeutico,è una colossale baggianata che svilisce se non umilia la Psicologia come disciplina, e tutti quegli psicologi seri e competenti (ce ne sono,lo giuro) che svolgono professionalmente Leggi tutto “Il trauma più attuale oggi: l’accoglienza velleitaria”

La prima pietra

Ogni volta che si inizia qualcosa di nuovo è sempre una grande emozione. Ho sempre evitato di scrivere,a parte qualche rara eccezione,nonostante da più parti venissi incitato a farlo. Non è stato per modestia o per mancanza di idee,anzi di cose da dire,su cui confrontarmi,dialogare,ne ho sempre avute moltissime. Solo che mi sento molto più stimolato a pensare,quindi a metterle insieme in modo organizzato e coerente,se ho qualcuno di vivo davanti a me,che sia una persona o un pubblico. Direi anzi che la presenza viva dell’altro mi spinge ad avere delle intuizioni sul momento,a pensare in quell’istante cose mai pensate prima,confidando nell’immenso potere della libera associazione con cui lavoro e su cui lavoro da tanti anni.

All’insegna dell’evoluzione dei tempi mi sono tuttavia risoluto a modificare questa mia naturale inclinazione,convinto come sono che se non utilizziamo il tempo che scorre per fare nuove esperienze che ci rendano sempre più liberi,invecchiare sarebbe davvero soltanto un lento scivolare verso l’oblio di sè stessi prima, e in ultimo verso la morte.

In buona sostanza un notevole spreco di opportunità. E poichè so che inizio con oggi ma non so quando finirò,mi piace immaginare tutto ciò che raccoglierò in questo spazio virtuale come una costruzione teoricamente infinita,un pochino,come la Sagrada Familia di Gaudì,senza peraltro aspettarmi lo stesso successo ovviamente. Ma come si dice,se devi avere dei modelli ,tanto vale puntare in alto…..

Ecco perchè il titolo,la prima pietra,confidando che altri vorranno collaborare con idee,suggerimenti,critiche,ai temi che ritengo interessanti e che ruotano intorno all’umano,nel bene e nel male. Il sito parte dall’idea del lavoro sul trauma,ma so già che pur tenendo centrale questo tema,mi lascerò andare a considerazioni relative ad altre aree cliniche,prendendo spunto dal mio quotidiano,di lavoro ma anche non,laddove come traumatica può ovviamente essere considerata ogni forma di sofferenza,sia essa episodica o continuativa.

Poter spaziare includendo aspetti della vita che solitamente non sono considerati traumatici,e che invece a mio parere lo sono,e che quindi risultano ancora più difficili da affrontare e risolvere,in quanto appunto non riconoscibili

“La più grande astuzia del Diavolo è far credere che non esiste”. Questo proverbio mi ha sempre colpito per la sua spietata lucidità e logica. Diabolico e tutto ciò che separa,che genera conflitto,sia esso sociale,relazionale,intrapsichico. E’ il contrario di Simbolico (diabolon e symbolon),ciò che unisce e unito dà significato a ciò che non lo aveva o che era andato perduto.

In questo senso ogni contributo mi sembra possa essere utile,quindi anche il mio

 

Ciao mondo!

Il blog del sito Stress Post Trumatico.

Qui gli articoli, i pensieri,  i progressi del dr. Sergio Poletti in tema di trattamento dei disturbi da stress post traumatico.