Il trauma più attuale oggi: l’accoglienza velleitaria

Riprendo una questione a cui avevo soltanto accennato nello scritto precedente. Siamo abituati a considerare traumatico solo o soprattutto l’evento eclatante,quello che in un modo (personale o mediatico) violento colpisce la nostra percezione. Sicuramente occorre tenerne conto,e sarebbe dovere mettere a disposizione di coloro che ne sono colpiti tutti i mezzi efficaci a disposizione. Così non è.
Prendiamo per esempio il caso,tra i più evidenti in questo momento,più evidente se non altro per consistenza numerica:i rifugiati dei centri si accoglienza.
Persone profondamente traumatizzate sia dalla situazione da cui fuggono,sia dal percorso spesso drammatico e violento che affrontano per arrivare là,cioè qua in Italia il più delle volte,dove si aspettano di trovare tutto ciò che fino ad allora gli era stato negato. Non approfondisco la questione,tutte cose già dette e inutilmente ripetute troppe volte.
Tutto bene,credo per quello che riguarda l’accudimento fisico,cioè cibo,vestiti adeguati al clima,cure mediche di prima necessità e così via.
E dal punto di vista psicologico? Ambito di cui tutti ormai si riempiono la bocca addetti e non ogniqualvolta accade qualcosa ,appunto di traumatico,dal terremoto al naufragio,dalle violenze di gruppo al disastro aereo. Parte armi e bagagli l’èquipe di psicologi,messa a disposizione etc,etc.
E per fare cosa? Con quale preparazione? Quale progetto?
Credo abbiamo assistito tutti grazie ai vari telegiornali, alle riprese di questi esperti(?) che si aggirano tra le tende,quando ci sono,chiedendo -come va? come si sente oggi? ha avuto paura? è riuscito a dormire questa notte?. E il poveretto di turno,forse perché sa di essere ripreso in quel momento,forse perché chi è traumatizzato ha la tendenza a compiacere chiunque mostri interesse per la sua situazione,forse perché -meglio stare al gioco,non si sa mai-,dà risposte ovvie e scontate.
Punto primo : ma davvero servono degli Psicologi,cioè personale tecnico qualificato da anni e anni di studi e, si suppone, formazione specialistica, per dire delle banalità che saprebbe dire meglio il barista del bar sotto casa,quando c’era ancora il bar e la casa,ovviamente.
O forse che saprebbero dirsi sicuramente molto meglio tra di loro,se non altro per l’inevitabile empatia e solidarietà che sorge in chi vive drammi simili.
Quello che avviene è una patetica replica della funzione una volta esercitata dal parroco,che girava dopo una battaglia tra le vittime a tentare di trasmettere un minimo di conforto umano e forse spirituale.
La vuota e ottusa convinzione che basta far parlare qualcuno del proprio dramma è già di per sè terapeutico,è una colossale baggianata che svilisce se non umilia la Psicologia come disciplina, e tutti quegli psicologi seri e competenti (ce ne sono,lo giuro) che svolgono professionalmente il proprio lavoro.
Prendo lo spunto per tornare alla questione dei migranti. Grazie a colleghi attivi nei pressi di centri di accoglienza del centro e sud Italia,ho ricavato
notizie certe e verificabili di pratiche assurde in cui,di nuovo sè dicenti esperti,tra cui gli immancabili psicologi ma talora anche “counselors”,privi di ogni competenza clinica,perché forse è ora che qualcuno lo dica con chiarezza,il trauma e i suoi esiti sono una questione clinica,non sociologica,non da salotto,non da affrontare in modo velleitario e ignorante,questi dicevo,organizzano sedute di gruppo (si capisce,sono in tanti…) in cui ai malcapitati viene chiesto di rivivere,di raccontare,di lasciarsi andare a riprovare le sensazioni degli orrori.A “condividerle”,altra parola ormai abusata,come se la condivisione fosse di per sè taumaturgica e liberatoria dall’angoscia e dall’incubo.
Condividi e sarai sanato!
Sarebbe questa la Terapia? Sono momenti questi in cui, pur appartenendo orgogliosamente alla schiera degli psicoterapeuti,peraltro da più di trent’anni,comprendo e giustifico quei detrattori di tutto ciò che inizia per “psi” considerandolo un cumulo di fesserie.
In termini più generali li ritengo individui affetti da gravi turbe nevrotiche bisognosi di difendere la propria conflittualità intrapsichica con rozzi mezzi di negazione. Però nelle circostanze di cui sopra,simpatizzo,lo confesso.
Ad aggiungere ulteriori elementi grotteschi,il fatto che spesso gli “esperti” non sono in grado di comunicare direttamente con le persone di cui dovrebbero occuparsi,per acuta incompetenza linguistica. E non parlo ovviamente delle lingue medio orientali o africane,la lacuna sarebbe comprensibile e giustificabile. In realtà questi soggetti accolti conoscono sufficientemente bene o l’inglese o il francese quando non entrambe. Il Dottore invece no. Quindi la scenetta che si presenta è più o meno questa:
lo psicoqualcosa si rivolge all’interprete (ricordo di sfuggita che il materiale trattato sarebbe coperto da segreto professionale riservato a psicologi o medici) dicendo più o meno ” chiedi a Samir,o Hamed,o N’guongo,che ci racconti cosa ha provato quando quattro scafisti lo hanno sodomizzato sul gommone….oppure quando hanno fatto la stessa cosa, o peggio, a sua sorella,madre cugina etc.”
L’interprete ha un attimo di smarrimento (traumatico?). Non sa bene come chiedere,come fare in un contesto del genere. Per chiunque lo sarebbe ,in qualunque contesto. Quando finalmente ci riesce in qualche modo,lo sguardo di Samir etc.,tradisce il dubbio che forse era meglio restare sul gommone con i quattro scafisti.
E questo lo vogliamo chiamare trattamento del trauma?
Non me la voglio prendere del tutto con i soggetti in questione. Spesso,voglio credere,sono in buona fede. Questo gli hanno insegnato,o finto di insegnare. Che la psicoterapia,le psicoterapie, in fondo sono delle chiacchierate, che poi le cose si risolvono da sole,che il tempo guarisce tutto,basta avere pazienza. E che alla fine i soldi disponibili quelli sono,quindi che vogliamo fare?
Sicuramente si potrebbe fare meglio di così,ma in effetti occorrerebbe rivolgersi a persone davvero qualificate dando loro la possibilità di proporre programmi un pochino più seri e specifici. Ancora una volta la domanda: ma chi prende queste decisioni? Con quale criterio vengono fatte queste scelte,che dovrebbero essere scelte tecniche,non politiche o di convenienza?

Forse scegliendo questa via si pensa di risparmiare. Forse sì,oggi. Ma domani? Tute queste persone avranno sicuramente bisogno in futuro di assistenza e/o farmaci per tirare avanti,senza contare tutto quello che nel frattempo potrebbero ritrovarsi a vivere o causare ad altri.

Non sarebbe difficile organizzare dei programmi seri ed efficaci di vera formazione per operatori e per gli utenti. Complesso forse,ma non difficile. Basta decidere